L'Ombelico di Alvise – Rassegna Stampa | Alraune Teatro Salta al contenuto
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Rassegna stampa

Orphans

Teatroteatro Autore: Francesca Romana Lino · 21 aprile 2014
Recensione Relazioni Famiglia
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"Orphans" di Dennis Kelly, regia di Luca Ligato

La verità che si svela può mostrare il volto di una Medusa, che mai vorremmo vedere, trascinando nel suo schianto le certezze e le fragili dinamiche affettive di una vita intera.

Trama:
Helen e Danny, una giovane coppia londinese, stanno per iniziare una cena a lume di candela quando, improvvisamente, irrompe nella loro casa Liam, il fratello minore di Helen, completamente ricoperto di sangue e in evidente stato di shock. I tre cercano concitatamente di ricostruire l'accaduto: un incidente, un incontro o cos'altro? La notte porta allo scoperto segreti profondi, da cui i tre giovani non possono fuggire.

Recensione:
Tutto questo c'è, nei quattro stati della verità. Così si potrebbero chiamare le quattro macrosequenze narrative, che il regista Luca Ligato scandisce attraverso l'uso del buio: e ogni volta che si riaccende la luce, la verità del racconto si fa più sordida e densa; fino al punto che neppure il disperatamente eroico tentativo di Helen è paragobile, all'inizio, a un'algida Antigone - e più disposto a tanto. E poi c'è quello squillo del cellulare - Liam ne aveva addotto l'improvviso spegnimento quale causa dell'impossibilità di chiamare aiuto per il ferito - a far crollare il castello di bugie: inizia lì, appunto, lo svelamento; così come, sempre lì, inizia una nuova rivisitazione, nonché negoziazione dei rapporti fra i personaggi.

Già: ma perché irrompere, Liam, in casa della sorella coperto di sangue a interrompendone la cena di lei col marito? Non c'è una risposta immediata. La verità ('a-le'theia'), del resto, è dis-velamento: e poche volte come in questa piece l'etimologia non è soltanto un preziosismo filologico. Sembra che abbia soccorso, per strada, un ragazzino aggredito... anzi, no: forse il ragazzino - arabo - l'ha picchiato lui, perché se l'è visto arrivare addosso all'improvviso e si è spaventato... ma, forse, invece solo per vendicare l'aggressione subita dal cognato tempo addietro e proprio da una banda di ragazzini... Salvo poi scoprire che c'è molto di più: che il ragazzino in realtà è un uomo, un padre di famiglia - quindi: ipso facto estraneo agli eventi - e che l'atto di Liam, lungi dall'essere la reazione fobica di fronte a un nemico potenziale, probabilmente altro non è che l'esplicitazione di una natura cattiva e perversa, che, pur manifestandosi in un candore ostentato e disarmante, di fatto prorompe da un odio turpe a lungo tacitamente covato. <<Ti stimo...>> continua a ripetere al cognato; e: <<Vi voglio bene...>>, rivolgendosi alla sorella; ma poi ad un certo punto lo ammette: <<Lui ha avuto tutti i vantaggi... e allora? E intanto un altro essere umano sta lì a prendere la merda e diventa una merda... Beata ignoranza! Verrebbe da tirarlo giù dal piedistallo e fargli mangiare un po' di tutta questa merda>>.

Altro elemento, probabilmente, è la delirante identificazione con l'amico skinhead. «Io non guardo al colore della pelle e tutte quelle cose là...», aveva confidato fin dall'inizio a Danny, ma poi, parlando di Ian e della sua collezione di cimeli bellici dice: <<È da malato... però è da fighi...>>. E attorno a quest'essere destabilizzante è interpretato da un Umberto Terruso, che tiene botta e per tutto il tempo riesce a restituirci l'impalpabile fragilità di una mente sconvolta, di cui l'agghiacciante epilogo è in qualche modo più la conseguenza che non la causa. Ruotano i due coniugi: Helen, la sorella di lui, e Danny, il cognato. Due personaggi tragici, a modo loro: nello speculare, ma impossibile tentativo di raggiungersi.

All'inizio, infatti, è il marito - un Dario Merlini visionario e alla Woody Allen - a non voler scendere a patti coi ricatti morali della moglie <<È la mia unica famiglia>> gli ricorda lei... e: <<O loro o noi... scegli, una volta tanto: renditi utile!>>, mettendolo di fronte al fatto: <<Se fosse stato nostro figlio a tornare a casa ricoperto di sangue?>>... e, qui, sa di colpire nel segno, perché, nel tanto non detto, fra i due, la posta in gioco è anche quella gravidanza, che spacca le aspettative della coppia.

Poi, invece, sarà lei - un'Alice Francesca Redini capace di ammorbidire il suo personaggio, spogliandolo, parallelamente, di sovrastrutture e meccanismi di difesa, insieme a quelle scarpe coi tacchi, che si sfila, l'abito, che lascia il posto a una più comoda vestaglia da camera ed i capelli che si sciolgono, restituendocela in un'intimità quasi da focolare - a superare il senso di colpa, che la spingeva ad avallare le brutalità del fratello. <<È solo sfortunato... per le persone come Liam le cose non vanno sempre per il verso giusto...>>: ma poi sembra riuscire a riappacificarsi col marito - superando il giudizio di vigliaccheria da subito emesso nei confronti di Danny - con la vita e con quella creatura che attende.

Un testo forte, sicuramente, feroce a tratti, e volutamente non curante del bisogno di pietas del pubblico. Un lavoro non a caso inserito all'interno delle “Letture e lezioni sulla tragedia greca” con contributo della Fondazione Cariplo, dato che tale, infatti, ne è la corposità: tragica, pur nella contemporaneità di tematiche e fatti, in cui Antigone non sarebbe probabilmente più l'eroica kamikaze pronta all'auto immolazione a esclusivo vantaggio di un ideale astratto e super partes, ma una donna moderna, in ascolto delle proprie esigenze d'individuo, prima di decidere da sé e per sé. Una drammaturgia strutturata in modo che l'azione non potesse che articolarsi così; eppure senza costrizione, ma con la naturalezza di un meccanismo che spontaneamente evolva secondo la propria interna modalità.

Poi resta da dire che, probabilmente, una resa cinematografica le sarebbe stata più congeniale: un gioco di sguardi e primi piani sarebbe stato sufficiente a far arrivare quel pathos che il regista teatrale ha dovuto suscitare con piccoli, ma non sempre così necessari e leggibili, movimenti scenici.