Guarda la luna. La luna ha un'aria molto strana. Somiglia a una donna che esce da una tomba.
La densa concentrazione che pervade ogni momento dell’opera Salomè, nella forma dell’intricato groviglio di passioni e nei tempi dell’azione, sembra riflettersi nella sinteticità di un testo breve ma pieno, compiuto; un’azione impetuosa e improvvisa che nulla ha di estemporaneo, ma rappresenta lo scoppio finale, la messa in atto di un dramma interiore che, covato per anni nel cuore della protagonista, ha prodotto un rancore ribollente. Ad esso si affianca, nata da una lunga attesa, una lucidità fredda, strategica, che si manifesta nella sua silenziosa femminilità e in una dignità feroce.
Gli attori sono inizialmente avvolti dall’impossibilità di agire, da un’angoscia impotente, da un impedimento di staticità, stretti da una pellicola soffocante dalla quale soltanto l’azione potrà liberarli, mentre altri personaggi restano invisibili, fuori dal palcoscenico.
La luna, con il suo pallore, è sempre presente: sembra un occhio attento, in silenzioso ascolto, che avvolge con il suo grigiore di pietra e di perle una scena dominata dal bianco, dal rosso e dal nero — come il corpo, la bocca e i capelli di Jochanaan — in un dramma in cui la materia non si separa mai dai pensieri dei personaggi. I rapporti tra loro sono segnati da corde rosse, e il telo sulla scena porta una spaccatura a forma di donna. Nel ritmo con cui Jochanaan recita le sue preghiere sembra di udire il pesante sbattere di ali che accompagna i personaggi in questa notte di luna inquieta.
«I re non dovrebbero mai dare la
loro parola. Qualcosa di terribile accade se non la rispettano, ma
qualcosa di terribile può accadere anche se la rispettano.»
Ed è strano come, tra tante grida, della morte stupisca sempre il
silenzio.
Alraune Teatro