“After the End” di Dennis Kelly, regia Luca Ligato
Dal comune osservare possono nascere confronti insaziabili,
parametri di giudizio vacanti e precoci testardaggini. Osservare in
senso stretto, però, implica perlopiù in senso brechtiano precedere
una comparazione necessaria che possa guidare lo sguardo e puntarlo
su chi tiene i fili del nostro destino. In questa avvertenza, che
assomiglia a un diktat se letta esclusivamente come regola di
sopravvivenza e non sistema di pensiero, si insinuano livelli altri
che vanno a indagare le convivenze e i loro guasti.
Da una coppia d’amanti a un nucleo familiare, il senso di rigetto è
divenuto un affare contemporaneo o una categoria, quasi, di
scrittura scenica. Le eccentricità sinistre, i ricambi generazionali
e i tormenti non ben identificati procurano una materia densa di
salite impervie che solleticano il gusto drammaturgico e registico a
testare il prodotto su un corpo d’attori.
Ecco perché nella ferocia clinica di After the End di Dennis Kelly,
storia di Mark e Louise rinserrati in un bunker antiatomico per
sfuggire a un attentato non chiaro, si svolge e si contorce su di sé
la pratica più netta e antica dell’opposizione tra nemici che
perseguitano e sono perseguitati. Nella versione registica di Luca
Ligato, Mark dal primo vagito scenico è reso molto efficacemente da
Alessandro Lussiana con storture da segregato sociale e mezzo genio
in cerca di conferma virile. Al contrario, Louise ha l’apparente
levità di Valeria Perdono che scarica sulla frivolezza incosciente
dell’essere pedina senza via d’uscita quella sventatezza che fa da
trampolino di lancio della segregazione conseguente.
L’effetto è una convivenza sempre più asfittica per mano del
carnefice Mark che sostiene d’aver messa in salvo Louise in un buco
nero senza collegamenti radio e con il cibo sempre più razionato. Ma
l’inversione dei ruoli non è un apparato implicito nel plot, Kelly
non percorre mai strade ovvie se non nel rispetto solido e rinnovato
di un cinismo tragico. Dunque, la trasformazione a passi stretti
incomincia dal racconto di quanto successo, dallo sforzo dichiarato
di sopravvivergli e da barzellette senza effetto di risata.
Il tempo avanza verso la sospensione e i due sono sempre più esposti
a menzogne che si decompongono e patetismi rinfacciati, fino alla
vendetta di un coltello che ribalta l’incatenamento fisico e verbale
di Louise senza saperle evitare lo stupro. I crescendo fanno da
alternanza, doppiezza del gioco teatrale che Kelly maneggia con
perfetto eccesso dialogico e la coppia d’attori incalza da posizioni
di scontro in cambi scena e azioni, sfoghi, crisi di nervi e
imperdonabili nefandezze scagliate l’uno sull’altra.
Se dunque, infine, la punizione del persecutore è inquadrata dalla
legge e gli spetta una cella in isolamento, la corrente delle parole
di Louise gli si presenta di fronte inattesa, mentre finge di
parlare di odori da vacanza e di una gatta su cui non ha potuto non
riversare la ciclicità del delitto subito soffocandola a sua volta.
Il tutto è confessato tra un’opinione e l’altra in una costruzione
drammatica affilata: le due pedine si uguagliano con le loro
prigioni e, anche se l’uno ha distrutto per primo l’altra
costringendola a una menzogna utile a placare i propri istinti,
proprio la vittima non ha scampo se non nella visita al carnefice
dopo la fine del vortice.
I fuochi della regia – dalla pulizia scenografica, alle luci basse e
movimenti da ring – si innestano in parallelo al testo senza mai
calcare per voluta misura e non astensione, lo splatter non
servirebbe e quello che incide e fa allargare il discorso alla
famiglia è l’innesco verbale. Una parola che divide e comanda
soprattutto quando a farne le spese sono i vincoli di sangue, le
rivendicazioni fraterne e le nevrosi da scaricare.
Alraune Teatro