Linkiesta di Giulia Valsecchi

Dal comune osservare possono nascere confronti insaziabili, parametri di giudizio vacanti e precoci testardaggini. Osservare in senso stretto, pero', implica perlopiu' in senso brechtiano precedere una comparazione necessaria che possa guidare lo sguardo e puntarlo su chi tiene i fili del nostro destino. In questa avvertenza, che assomiglia a un diktat se letta esclusivamente come regola di sopravvivenza e non sistema di pensiero, si insinuano livelli altri che vanno a indagare le convivenze e i loro guasti.

Da una coppia d'amanti a un nucleo familiare, il senso di rigetto e' divenuto un affare contemporaneo o una categoria, quasi, di scrittura scenica. Le eccentricita' sinistre, i ricambi generazionali e i tormenti non ben identificati procurano una materia densa di salite impervie che solleticano il gusto drammaturgico e registico a testare il prodotto su un corpo d'attori.

Ecco perche' nella ferocia clinica di After the end di Dennis Kelly, storia di Mark e Louise rinserrati in un bunker antiatomico per sfuggire a un attentato non chiaro, si svolge e si contorce su di se' la pratica piu' netta e antica dell'opposizione tra nemici che perseguitano e sono perseguitati. Nella versione registica di Luca Ligato, Mark dal primo vagito scenico e' reso molto efficacemente da Alessandro Lussiana con storture da segregato sociale e mezzo genio in cerca di conferma virile. Al contrario, Louise ha l'apparente lievita' di Valeria Perdono' che scarica sulla frivolezza incosciente dell'essere pedina senza via d'uscita quella sventatezza che fa da trampolino di lancio della segregazione conseguente.

L'effetto e' una convivenza sempre piu' asfittica per mano del carnefice Mark che sostiene d'aver messa in salvo Louise in un buco nero senza collegamenti radio e con il cibo sempre piu' razionato. Ma l'inversione dei ruoli non e' un apparato implicito nel plot, Kelly non percorre mai strade ovvie se non nel rispetto solido e rinnovato di un cinismo tragico. Dunque, la trasformazione a passi stretti incomincia dal racconto di quanto successo, dallo sforzo dichiarato di sopravvivergli e da barzellette senza effetto di risata.

Il tempo avanza verso la sospensione e i due sono sempre più esposti a menzogne che si decompongono e patetismi rinfacciati, fino alla vendetta di un coltello che ribalta l’incatenamento fisico e verbale di Louise senza saperle evitare lo stupro. I crescendo fanno da alternanza, doppiezza del gioco teatrale che Kelly maneggia con perfetto eccesso dialogico e la coppia d'attori incalza da posizioni di scontro in cambi scena e azioni, sfoghi, crisi di nervi e imperdonabili nefandezze scagliate l'uno sull'altra.

Se dunque, infine, la punizione del persecutore e' inquadrata dalla legge e gli spetta una cella in isolamento, la corrente delle parole di Louise gli si presenta di fronte inattesa, mentre finge di parlare di odori da vacanza e di una gatta su cui non ha potuto non riversare la ciclicita' del delitto subito soffocandola a sua volta. Il tutto e' confessato tra un'opinione e l'altra in una costruzione drammatica affilata: le due pedine si uguagliano con le loro prigioni e, anche se l'uno ha distrutto per primo l'altra costringendola a una menzogna utile a placare i propri istinti, proprio la vittima non ha scampo se non nella visita al carnefice dopo la fine del vortice.

I fuochi della regia - dalla pulizia scenografica, alle luci basse e movimenti da ring - si innestano in parallelo al testo senza mai calcare per voluta misura e non astensione, lo splatter non servirebbe e quello che incide e fa allargare il discorso alla famiglia e' l'innesco verbale. Una parola che divide e comanda soprattutto quando a farne le spese sono i vincoli di sangue, le rivendicazioni fraterne e le nevrosi da scaricare.

Giulia Valsecchi
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22 Maggio  2015
 

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